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Oltre la gogna, per contrastare il flusso dell’odio e le sue dinamiche

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di Federico Faloppa, Coordinatore della Rete

 

Molto si parla e si è parlato, in questi giorni, di discorsi d’odio online, delle loro dinamiche, e dei loro effetti. Alcuni incresciosi e drammatici fatti di cronaca hanno riposto al centro del dibattito pubblico l’hate speech, le sue varie forme, le sue molte drammatiche conseguenze sugli individui e sulla società. È un bene che sia così, e che se ne parli: che ci si interroghi su quanto i discorsi d’odio possano facilmente propagarsi, ferire le persone, inquinare gli spazi pubblici (che spesso si mescolano e si confondono, nell’infosfera, con quelli privati). Ed è un bene che si chieda – a tutt*, non solo alle persone direttamente coinvolte – più attenzione, consapevolezza, responsabilità.

Tuttavia è anche allarmante e disarmante che, ogni volta, dopo tanti anni di ragionamenti, di lavori, e di iniziative per arginare i discorsi d’odio – e soprattutto dopo tanti anni di devastanti ferite – si sia ancora lì, a parlarne come se fosse sempre la prima volta. Come se non stessimo assistendo al consolidamento di fenomeni che, pur facendo ormai parte da tempo del nostro quotidiano interagire attraverso i social media, non vengono ancora affrontati (e quando necessario, stigmatizzati) con la necessaria lucidità e lungimiranza.

Da tempo sappiamo tutto, o quasi, delle gogne mediatiche, che pre-datano la comunicazione nei social: si pensi soltanto agli anni di “Mani pulite” e ai talk show costruiti, negli ultimi trent’anni, intorno allo schema dell’attacco feroce contro un bersaglio da additare come un nemico, ma che grazie ai social media sono diventate quotidiane, non mediate, spesso deresponsabilizzate perché prodotte da una moltitudine. Sappiamo ad esempio – ce lo ha spiegato Zygmunt Bauman oltre vent’anni fa – come l’esercizio della gogna collettiva verso una persona che neppure si conosce possa far sedimentare ostilità dispersa e aggressività diffusa. Come non si cerchi, con la gogna, né verità sugli sbagli o giustizia per i crimini che qualcuno può aver commesso, ma solo l’opportunità di poter odiare un soggetto senza riserve e senza il pericolo di subire reprimende. E come in questo modo l’odio diventi – paradossalmente – un elemento che unisce, una valvola di sfogo comune che crea solidarietà in chi attacca, ed estrema marginalizzazione e solitudine in chi viene attaccat*.

Siamo anche oltre la ‘gogna mediatica’. Siamo a circoli viziosi di hate speech che si generano in un catene di botta e risposta senza nessun* che faccia mai un passo indietro, chieda scusa, dica “mi sono sbagliat*”, si prenda il tempo per riflettere sulle proprie abitudini prima di partire lancia in resta, in ogni possibile occasione, contro qualcosa o qualcun*. Ergendosi contemporaneamente a pubblica accusa e giudice, e di fatto vanificando ogni possibile meccanismo di difesa.

Siamo in una nuova era della comunicazione, una enorme macchina che produce malintesi, conflitti, rumore. Una macchina molto complicata da gestire e dove tutto ciò che diciamo può essere usato contro di noi: dove gli effetti prevalgono sulle intenzioni, dove i codici culturali cambiano rapidamente – più di quanto ce ne accorgiamo – e ogni messaggio può avere infinite interpretazioni, dove si mettono in gioco non solo competenze linguistiche e relazionali, ma anche la reputazione nostra e delle altre persone. Dove il silenzio viene visto come una resa, le pause di riflessione come atti di codardia.

Che fare, allora?

Come Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio proviamo a monitorare, analizzare, contrastare l’hate speech sapendo che nessuna di queste tre azioni può fare a meno delle altre. Osservare con attenzione l’evoluzione dei fenomeni, non solo quando diventano fatto del giorno, ma costantemente, richiede metodo, risorse, lavoro in network tra utenti, soggetti della società civile, target di discorsi d’odio, media, piattaforme digitali, policy maker. Richiede un continuo investimento in formazione ed educazione, per rendere tutt* più consapevoli circa le sfide e i rischi del comunicare in rete, le competenze minime necessarie per poterlo fare, e i diritti e doveri di ciascun*. Richiede norme certe e soprattutto politiche di ampio respiro per una literacy digitale, e per fornire supporto e servizi alle persone colpite da discorsi e crimini d’odio. Richiede inoltre grande attenzione e responsabilità da parte di chi fa informazione: non solo nell’evitare di inseguire non-notizie per ragioni di clickbait, andando dietro agli umori ondivaghi della rete, ma anche nel verificare fatti, fonti, circostanze. E soprattutto nel trattare i discorsi d’odio approfonditamente, senza scorciatoie moralistiche, autoassoluzioni, ricerca di facili capri espiatori (“è tutta colpa dei social media”).

Ecco, vorremmo – come Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio – vedere finalmente un giornalismo deontologicamente maturo quando si parla di hate speech, capace di tenere in considerazione le complessità, le dinamiche, e tutti i soggetti coinvolti.

In generale, maggiore responsabilità e consapevolezza servirebbe da parte di tutta l’utenza. Che deve sapere quanti e quali effetti gli shitstorm a cui si partecipa, spesso senza battere ciglio, possono avere sulle persone a cui questi sono indirizzati, e sulle loro famiglie. Tirare il sasso e nascondere la mano è un pessimo comportamento – crediamo – non solo da utenti, ma anche da cittadini, e da persone che vivono di relazioni.

Vorremmo, infine, non dover mai assistere all’uso di discorsi odio in risposta all’odio: cosi né ci si difende né si ottiene ‘giustizia’ o ‘verità’. Né servono “giustizier*”, che semmai nello stile e negli esiti riproducono soltanto le dinamiche d’odio che dicono di voler combattere, incarognendole ancora di più. L’‘odio dei giusti’ non è migliore di quello di hater e ‘centrali dell’odio’. L’ ‘odio dei giusti’ anzi non esiste: perché esiste solo il discorso d’odio – che non è mai ‘giusto’ – con le sue devastanti conseguenze.

Conosciamo piuttosto bene, ormai, l’hate speech, le sue definizioni, le sue forme. Ciò che resta da fare è continuare a comprenderne la portata sulle ‘vittime’ dirette e indirette – senza vittimizzarle ulteriormente, colpevolizzandole o forzandole ad agire secondo schemi precostituiti – chiedendosi che cosa può fare ognun* di noi, nella propria pratica quotidiana, per arrestare il circolo vizioso di shitstorm, aggressività compulsiva, messa in gogna, deresponsabilizzazione individuale e collettiva. Ed è continuare a chiedere risorse adeguate per fare formazione, educazione, prevenzione: a tutti i livelli, per tutte le fasce di utenza e di età, con continuità e una visione di lunga durata. Perché con le risposte soltanto emotive – che spesso durano lo spazio di un mattino, sull’onda dell’ennesimo fatto di cronaca – non se ne viene a capo. Anche se sarebbe facile, e tutto sommato comodo, volerlo credere.

 

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